Home » La carriera a distanza

Si può fare carriera in smart working? La domanda se l’è posta il New York Times raccontando le storie di giovani studenti americani che la scorsa estate hanno svolto tirocini in aziende e importanti banche d’investimento. Per quanto le società si siano impegnate a “colmare le distanze”, in molti avrebbero preferito trovarsi in ufficio. Il lavoro da remoto infatti, è spesso favorito dai dipendenti con alcune caratteristiche comuni: sono in azienda da diversi anni, sono professionalmente affermati, conoscono il loro manager, si sentono a proprio agio nel ruolo ricoperto e vogliono conciliare il lavoro con le responsabilità familiari e gli svaghi personali. Per chi invece entra oggi nel mercato del lavoro, lo smart working potrebbe rappresentare un ostacolo.

Lavoro ibrido Per coloro che hanno appena iniziato un percorso professionale, infatti, lavorare in isolamento può rendere più difficile l’inserimento in un’organizzazione, e di conseguenza protrarre gli eventuali scatti di carriera. Se da un lato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha richiamato tutti i dipendenti federali a tornare in ufficio qualche giorno fa, d’altra parte è ormai assodato che lo smart working resterà in forme più o meno forti nella maggior parte delle aziende americane. E così le società si stanno adoperando per cercare nuovi modi di includere i lavoratori con contratti di lavoro ibrido o totalmente in smart working. Chi attraverso corsi di leadership, chi individuando all’interno dell’azienda dei mentori a supporto dei dipendenti che lavorano a distanza.

Esserci e non esserci La speranza è che questi sforzi per coinvolgere i lavoratori da remoto aiutino a contrastare la tendenza dei manager a considerare di più i dipendenti che sono presenti in ufficio. Secondo un sondaggio realizzato dalla Society for Human Resource Management, il 42% dei manager intervistati ha ammesso di aver spesso trascurato i lavoratori a distanza durante la distribuzione degli incarichi (Bloomberg). E non per motivi personali o punitivi, ma semplicemente perché non erano lì. Un atteggiamento che gli psicologi hanno etichettato come “bias di prossimità”.

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