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La sociologa Francesca Coin: “Ecco come (e perchè) la Gen Z sta cambiando il mondo del lavoro”

Il mondo del lavoro si appresta a vivere una fase di profondo cambiamento: la Gen Z è pronta a superare numericamente quella dei Baby Boomer nella forza lavoro a tempo pieno e porterà con sé desideri e aspettative che differiscono profondamente da quelli delle generazioni precedenti. Abbiamo chiesto alla sociologa Francesca Coin, autrice del libro “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita” (edito da Einaudi nel 2023), di aiutarci a comprendere i mutamenti in atto. Coin insegna nel Centro di competenze lavoro welfare società del dipartimento di Economia aziendale sanità e sociale (Deass) della Supsi, in Svizzera. Scrive su Internazionale.

La generazione Z ha un approccio diverso al lavoro rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta. Sulla base delle sue ricerche in cosa consiste questo diverso approccio e quali sono le cause che lo determinano?

Da diversi mesi la stampa si interroga su questo tema. In generale, la Gen Z è cresciuta in un’epoca segnata da crisi continue: la crisi pandemica, climatica, la guerra e le crisi finanziarie che si sono succedute a partire dal fallimento di Lehman Brothers. Nel 2023 la Società di Consulenza EY ha stilato un rapporto sui giovani della Gen Z che vivono negli Stati Uniti, mostrando che questi arrivano sul mercato del lavoro in un contesto diverso rispetto alle generazioni passate. La casa, le cure sanitarie e l’istruzione impongono sulle nuove generazioni una pressione economica elevata. Nel contempo, la precarietà, l’inflazione e i bassi salari, fanno sì che la Gen Z abbia preoccupazioni che le generazioni precedenti non avevano. Secondo il rapporto, la preoccupazione principale della Gen Z sono i soldi, e con essi la trasparenza salariale, l’iniquità sociale o di genere. Per la Gen Z, guadagnare tanto è fondamentale, ma lo scopo non è diventare ricchi, è sopravvivere.

Si può parlare di disaffezione al lavoro per questa generazione o è un fenomeno più ampio e intergenerazionale a causa di mutate condizioni economiche e sociali?

Dipende dalla definizione che diamo. Se pensiamo alla disaffezione come la tendenza a non accettare un lavoro a qualunque costo, ma a considerare i costi e i benefici che questo comporta, dal punto di vista economico, professionale e sociale, potremmo dire che la disaffezione è un fenomeno intergenerazionale, legato alla crescita della precarietà e al deterioramento delle condizioni di lavoro. È intergenerazionale, per esempio, l’aumento del numero delle dimissioni volontarie, che potremmo considerare come uno dei sintomi di questa tendenza. Nella Gen Z, questo spesso si lega a salari troppo bassi, e all’impossibilità di accettare impieghi che offrono una contropartita economica inadeguata. Questo mi sembra importante anche alla luce del fatto che, per la Gen Z, fare più lavori contemporaneamente è spesso necessario. La generazione nata nel boom economico è cresciuta in un’epoca nella quale il lavoro era, ancora, tutelato e caratterizzato dalla fedeltà all’azienda. La Gen X è nata nell’epoca della precarietà. I millennials sono cresciuti facendo “side hustles” (lavoretti) nella gig economy. La Gen Z, invece, ha, spesso, necessità di svolgere un secondo lavoro in aggiunta al proprio impiego principale. Siamo, in altre parole, in un contesto che vede le condizioni di lavoro deteriorarsi generazione dopo generazione. Il rapporto di EY, ad esempio, mostrava che il 39% degli intervistati under 26 svolgeva sia un lavoro a tempo pieno o part-time, che un lavoro freelance. “Per la Gen X, avere un lavoro secondario era fonte di vergogna, spesso lo accettava per disperazione o per sbarcare il lunario e tirare avanti”, scriveva il rapporto. Per la Gen Z fare (almeno) due lavori, spesso è una necessità. Costretta a lavorare di più, per restare a galla in un contesto di lavoro precario e poco pagato, non è raro che la Gen Z sia più veloce a lasciare un lavoro che non rende abbastanza, per necessità di comporre un reddito sufficiente.

La flessibilità oraria, dopo lo stipendio, sembra essere uno dei driver principali delle scelte lavorative della generazione Z. Perché? Questo fenomeno è connesso in qualche modo all’incremento del numero di persone che hanno un doppio (se non triplo) lavoro? Oppure è connesso solo al desiderio di un migliore equilibrio tra vita privata e professionale?

Direi che questa tendenza è fortemente connessa al bisogno di controllo. In un’epoca di incertezza, fatta di crisi e precarietà, la generazione Z cerca di contrastare questa elevata percezione di insicurezza mantenendo il controllo almeno sul suo lavoro. In questo senso, spesso cerca di mantenere il controllo sugli orari, sulle modalità di lavoro (da remoto o meno), sui turni, sulle paghe. Cresciuta in un’epoca di crisi segnata da circostanze incontrollabili che hanno sconvolto le loro famiglie, la Gen Z sente di non avere il controllo sugli eventi che ne plasmano la vita e il destino. Da qui, io credo, l’accento su come lavorare, quanto lavorare, quando e in che modo, e la tendenza a orientarsi verso aziende in grado di soddisfare i propri bisogni.

Sempre più persone appartenenti alla GenZ fanno il loro ingresso nel mondo del lavoro. Può essere un motore per un cambiamento culturale all’interno delle aziende?

Direi di sì. Per quanto in modo individuale e disorganizzato, le pressioni che la Gen Z esercita nei luoghi di lavoro si innestano in un contesto di generale difficoltà in cui le aziende fanno fatica a trovare personale. In questo senso sono sintomi del fatto che, forse, è tempo di ripensare il modo in cui lavoriamo. Il nostro modello lavorativo è ancora basato su una società fordista, fondata ad esempio sulla giornata lavorativa di 8 ore e sugli orari della fabbrica, anche se il fordismo è tramontato da decenni. In questi decenni, la capacità produttiva, le tecnologie, la società stessa sono cambiate radicalmente, insieme alle loro priorità e al contesto, basti pensare alla crisi climatica. In questo senso, la settimana lavorativa di quattro giorni, lo smart working, il reddito di base universale, sono tutti temi che suggeriscono che sia arrivato il momento di ragionare su come riformare il lavoro nel terzo millennio. 

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